[Mostly Weekly ~134]
Fondazioni e generazioni
A cura di Antonio Dini
Numero 134 ~ 26 settembre 2021
La tristezza della mezza età
È da un po' che mi interrogo sulle ragioni di un disagio profondo che vivo da qualche tempo. È la mia situazione personale, mi dico. È causato dalla pandemia e lockdown annesso, mi giustifico. È la mezza età che porta l'andropausa, mi sussurro. In realtà temo che ci sia anche un altro fattore molto particolare: essere la generazione a cavallo tra due epoche in questa fase di inversione della polarità sociale è doloroso. E il disagio che sento verso chi ha meno di quarant'anni trova una giustificazione in questo articolo di Michelle Goldberg (opens new window) sul New York Times. Non so a chi altro possa risuonare, ma a me sì, risuona parecchio: «Molte persone che conosco oltre i 40 (forse 35) si risentono dei nuovi costumi sociali che richiedono una sensibilità smisurata quando vengono causati danni. È stato stridente passare da una cultura intellettuale che premia la trasgressione a una che la controlla. La vergogna di trasformarsi in una sorta di persona anziana respinta dalla sensibilità dei giovani è causa di vero dolore psichico». È una interpretazione della cancel culture nei college (l'articolo parte dalla serie The Chair che, più che satira del mondo accademico, è una lente d'ingrandimento su un luogo fondamentale di socializzazione secondaria per i giovani) e poi nel mondo dello spettacolo. Dietro il panico della cultura dell'annullamento ammettiamolo: c'è la tristezza della mezza età.
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Ah, se volete la cura rapida per il singhiozzo, sappiate che basta bere da una cannuccia piegata. Era facile (opens new window).
The factory of the future will have only two employees, a man and a dog. The man will be there to feed the dog. The dog will be there to keep the man from touching the equipment
–– Warren Bennis
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Editorialogica
Like Steve
Il momento che dovrebbe definire una carriera di ceo è quello alla Steve Jobs che parla ai neolaureati di Stanford e in quarantadue minuti gli spiega il senso della vita, dell'universo e tutto quanto. Nel caso di Google il suo ceo Sundar Pichai ha provato a fare uno slam dunk in soli 60 secondi:
Immagina la tua vita come se fossero 5 palline da far girare in aria cercando di non farle cadere. Una di queste palline è di gomma, altre 4 sono di vetro. Queste 5 palline sono: lavoro, famiglia, salute, amici, anima Il lavoro è la pallina di gomma. Ogni volta che cadrai sul lavoro potrai saltare di nuovo (e anche meglio di prima) in un altro lavoro. Se invece a cadere sarà una delle altre, non ritornerà alla sua forma di prima. Sarà rotta, danneggiata, crepata. È importante diventare consapevoli di questo il prima possibile ed adattare adeguatamente le nostre vite. Come? Gestisci con efficacia il tuo orario di lavoro, concediti del tempo per te, per la tua famiglia, per gli amici, per riposarti e per prenderti cura della tua salute. Ricorda, se una delle palline di vetro si romperà non sarà facile farla tornare come prima. Gestisci con saggezza il tempo.
Forse non sarà un discorso che vi cambia la vita, ma almeno avete la misura di quanto lontano riesce ad arrivare la pallina lanciata da Pichai.
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Importante
Come gestire il tuo social
Ma come si fa a gestire per bene un social? Ve lo siete mai chiesti? Darius Kazemi non solo se lo è chiesto, ma ha anche scritto questa meravigliosa piccola guida (opens new window) su perché e quando dovresti (e quando non dovresti) gestire il tuo social network. Si occupa di dettagli tecnici e argomenti relativi alla gestione della comunità, all'applicazione delle regole e al finanziamento dei progetti. Un'ottima lettura per chi pensa di avviare una community online.
Ciao ciao Alipay
Non sono un analista di cose cinesi. Neanche un po'. Però un po' di chiacchierate qua e là, alcune interviste e qualche lettura mirata mi hanno aiutato a formarmi un'opinione. Alipay (e Ant) è diventata un'enorme attività bancaria e creditizia totalmente non regolamentata e che si muove sostanzialmente nell'ombra. Non c'è bisogno di essere il Partito comunista cinese per aver voglia di chiuderla (opens new window). È pazzesco essere d'accordo con Pechino, ma non ci sono molte alternative. Nel resto del mondo sarebbe già successo da tempo.
Yamato
Dō (道)
La parola giapponese per il nostro dizionario tematico settimanale questa volta è semplice: dō (道), che significa via, strada. È un termine che conosciamo molto bene anche in italiano perché ricorre in molti composti: da bushidō (武士道) "la via del guerriero" cioè il codice etico dei samurai, a kendō (剣道) "la via della spada" cioè il modo della spada inteso come filosofia morale oltre che come arte marziale. Sino alla kadō (華道) la "via dei fiori" che viene spesso chiamata anche ikebana (生け花 oppure 活け花), cioè "sistemare i fiori" o "rendere i fiori vivi". La via (dō) è un concetto che dal punto di vista semantico è semplice: l'etimologia è quella di michi (みち), dove mi richiama i kami, le divinità giapponesi, e indica non solo una normale via ma anche un modo.
Lo stesso ideogramma di dō in cinese si pronuncia dào ed è non solo la strada ma anche la giusta direzione, quindi la norma e la dottrina, nonché la radice del termine "Tao" (meglio "Dao") che indica sia alcune opere filosofiche, morali e mistiche di due pensatori cinesi del IV secolo avanti Cristo (Laozi e Zhuāngzǐ) che la religione istituzionalizzata nell'impero cinese nel I secolo dopo Cristo. È la meno strutturata e la meno conosciuta tra le grandi religioni del mondo, caratterizzata da ha una visione "cosmica" del tutto, in cui gli esseri umani e tutto il resto esistono in una armonia fatta di equilibri reciproci. Il daoismo in Giappone è diventato il buddismo Zen.
Il dō giapponese è una cosa parzialmente diversa, invece. Indica semplicemente il modo di fare qualcosa, la "via" nel senso della maniera giusta. E come tale, semplifica molto perché riassume con una locuzione sia il precetto che il metodo dell'insegnamento. In particolare nelle arti marziali giapponesi (e di altre parti dell'Asia), il dō indica la disciplina o scuola per l'insegnamento di una particolare arte. Lo stesso karate in realtà si chiama karatedō (空手道), cioè la "via della mano vuota", perché il suo suffisso implica che si tratta di un percorso personale di crescita interiore e non solo dello studio e della pratica degli aspetti tecnici del combattimento. È un retaggio del Giappone feudale e, quando lo si incontra, questo vuol dire che l'arte marziale è antica ed è sopravvissuta a un cambiamento di cultura profondo (l'apertura forzata e la rapida modernizzazione dell'arcipelago) portando con sé il sapore di un "insegnamento classico".
Piccoli veicoli di Tokyo
Due domeniche fa si parlava delle mini-macchine. giapponesi. E adesso ho pescato questo notevole saggio (opens new window) sui molti modi in cui il trasporto a Tokyo è fatto in modo diverso rispetto ad altre grandi città. Ho anche imparato un sacco di cose, come: «Con l'aiuto del fatto che il parcheggio su strada in Giappone è stato sostanzialmente bandito dal 1963, le strade dei quartiero di Tokyo tendono a essere strette e lente, e di conseguenza decisamente umane. Queste restrizioni al parcheggio su strada sono accompagnate da leggi sulla prova di parcheggio, in cui i potenziali proprietari di auto devono dimostrare alla polizia di avere a disposizione (pagandolo) un parcheggio fuori dalla strada prima dell'acquisto dell'auto».
Distrazioni
Il camminare come sistema produttivo
Lo seguo da anni, sono un suo lettore e sostenitore. Per questo quando ho scoperto che Kieran O'Hare ha intervistato (opens new window) il mio mito Craig Mod su come fa ad organizza le sue lunghe camminate durante le quali scrive più libri e newsletter di quelle che possiamo indicare con un bastone da passeggio. «Piuttosto che avere un unico insieme di obiettivi che cerco di raggiungere, ho un unico grande “obiettivo all'orizzonte”. Per restare nelle metafore del camminare: l'orizzonte è qualcosa che non raggiungerai mai, non importa per quanto tempo cammini, è qualcosa verso cui continui a muoverti. L'obiettivo all'orizzonte verso cui mi sono mosso negli ultimi trent'anni è il bookmaking».
Multimedia
Ho visto le prime due puntate di Foundation (opens new window), la serie in dieci puntate di Apple Tv+ tratta dal ciclo di romanzi di fantascienza di Isaac Asimov. E sono rimasto un po' perplesso. Non è un film, come il Dune (opens new window) di Denis Villeneuve appena uscito, che può contare su una sintesi tutta cinematografica e messi visivi più potenti. Foundation ha un ritmo lento, nei primi due episodi, e un po' spiazzante, oltre che un po' poverello, da telefilm di fantascienza canadese (quelli che vanno sempre nelle solite tre o quattro location a girare le scene del pianeta alieno o del palazzo futurista del potere), con anche dei costumi con un gusto un po' artefatto e quasi camp. Però è coraggioso, costruisce sopra il ciclo di Asimov, lo riprende, lo rimodella e lo fa suo. E dà gambe a tante cose, ma l'immagine mentale di chi come me ha letto da ragazzo i libri rimane insuperata. (Ho visto anche Dune e per quello invece la cosa cambia).
La swing mania non solo non è mai definita, ma in qualche modo sta definendo un’epoca. Di nuovo. Qualche gruppo mentre si sta dando da fare: Cherry Poppin' Daddies - Zoot Suit Riot (opens new window), oppure Squirrel Nut Zippers "Hell” (opens new window), oppure The Mighty Mighty Bosstones - The Impression That I Get (opens new window), e infine The Brian Setzer Orchestra - Jump Jive An' Wail (opens new window).
Gli Abba spiegati bene. Serve? Certo. Si lo so, gli Abba sono quella cosa noiosa della quale ogni tanto mi ostino a parlare. Sono zuccherini. Sono fastidiosi. Sono anche tornati di moda già due o tre volte, quindi perché parlarne ancora, a parte album e concerto in arrivo? Beh, perché sono musicisti incredibili che hanno creato il sound di un’epoca. E ci sono vari modi per capirlo. Ascoltando il loro bassista (che scommetto non conoscete) suonare da solo (opens new window). È una macchina da guerra e il motore della loro musica, all’unisono con la batteria ovviamente. Il motore? Beh, senti che basso (opens new window): tutti accordi maggiori, allegro da morire, niente riempitivi. Ancora: sentite che roba basso e batteria isolati (opens new window). E questa è mamma mia, sempre basso e batteria isolati (opens new window). Pensate che sia tutto lavoro dei produttori, che gli Abba siano una cosa facile facile, magari come i Frankie Goes to Hollywood, un gruppo di scappati di casa messi assieme e teleguidati dalla loro casa discografica? Beh, ripensatelo (opens new window).
Renzo Varetta, amico e musicista, l'ha fatto di nuovo: canzone con video ufficiale Butterflies in a summer garden (opens new window) e poi, siccome c'è sempre un lato B dei 45 giri, ecco anche Arab Phoenix (opens new window). Come scrive l'autore: "Il 3 settembre il nuovo 45 giri di Renzo Varetta VOLATILE sarà disponibile su tutti i digital store. (...) Questo nuovo 45 giri digitale segna un passo importante nella carriera musicale di Renzo grazie a nuove sonorità e atmosfere e arricchisce la sua produzione eterogenea. VOLATILE è un'esperienza a tutto tondo, dove musica, parole e immagini si mischiano e si intrecciano in una spirale colorata che conduce in altri luoghi sopra i tetti, là fuori."
Tsundoku
Non è un libro, ma va bene lo stesso qui. Basmo (opens new window) è un'app solo per iOS) che aiuta a tenere traccia dei libri che letti o che si desidera leggere, impostare obiettivi di lettura, tenere un diario dell'esperienza di lettura e salvare i passaggi preferiti. È Goodreads senza il social network, insomma. Anche se io preferisco la nuova Anobii.
Non è neanche questo un libro. Invece, Primary Paper (opens new window) è una rivista di fotografia indipendente ben progettata e accuratamente curata che offre una prospettiva unica su un singolo argomento per numero. Il tema dell'ultimo numero è "umano" ed esplora i molti modi in cui la nostra umanità è stata sfidata e celebrata, specialmente nell'ultimo anno di vita pandemica. Da leggere, anche se costicchia.
C'è questo nuovo libro di Jonathan Chapman sulla progettazione di prodotti che non solo durano più a lungo, ma rimangono desiderabili più a lungo: Meaningful Stuff (opens new window). “Per quale perversa alchimia le nostre cose più nuove e più belle si trasformano così facilmente in spazzatura senza senso? Chapman condivide la sua idea di sensibilità progettuale; "esperienza pesante, materiale leggero". Questa nuova filosofia di design è vitale e tempestiva: rivela come il significato emerga dagli incontri progettati tra persone e cose, esplora modi per aumentare la qualità e la longevità delle nostre relazioni con gli oggetti e i sistemi dietro di essi e, infine, dimostra perché il design può -e deve- guidare la transizione verso un futuro sostenibile”.
Coffee break
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Al-Khwarizmi
L'algoritmo di Tiktok
Il nuovo social (ok, non più così nuovo) è TikTok. Formato giovane, bello veloce, innovativo. E ha un "algoritmo magico". O almeno così tutti pensavamo, anche per via dell'attacco fatto dagli americani guidati da Donald Trump alla società che ha il cuore cinese. Una delle linee di difesa era che ad essere fondamentale al funzionamento di TikTok e al suo successo era proprio questo fantastico algoritmo magico che gli altri non hanno. Poi salta fuori che se un ragazzino o una ragazzina becca dei contenuti per adulti, il servizio continua a mostrargliene ancora e ancora. E quindi si capisce che l'algoritmo magico in realtà è un banale "altra roba come questa che hai appena visto". Che, nel caso di contenuti per adulti, può rapidamente diventare un film vietato ai minori. È facile vincere così (opens new window). E per niente etico o legale.
Fare la cosa giusta
Scrive David Tussey:
Ho lavorato da Google per sei anni. Ho lavorato da Adobe. Ho lavorato da Bloomberg. Ho lavorato in diverse società di consulenza di alto livello. Tanti vantaggi e vantaggi. Ottima paga. Uffici incredibili. Molte stock option.
Li ho lasciati per un lavoro con la città di New York. Ho avuto un grosso taglio di stipendio. Non c'erano vantaggi, i benefici nella media, nessuna stock option. Il mio ufficio era goffo e ogni mattina il viaggio per andare al lavoro era terribile. Ed è stato di gran lunga il miglior lavoro che abbia mai avuto.
Come mai? Perché ogni giorno per tutto il giorno le decisioni che ho preso hanno influenzato direttamente la qualità della vita di milioni di persone che lavorano, visitano e vivono a New York. Perché mai una volta mi sono dovuto preoccupare dei rapporti trimestrali sui guadagni o della redditività del progetto. Non una volta ho dovuto convincere le persone a fare clic sugli annunci. Perché la responsabilità di spendere soldi dai cittadini di New York mi ha tenuto ben consapevole dei costi e dei benefici. Perché ogni progetto su cui ho lavorato, ogni decisione, ha fatto la differenza nella vita delle persone e ogni persona con cui ho lavorato lo ha apprezzato.
Forse non è vero, soprattutto perché vivo in una città italiana, ma mi piace pensare che ci sia un fondamento di verità.
Addio Docker Desktop, benvenuto Minikube
Docker Desktop, lo strumento che permette di gestire Docker e Kubernetes sul Mac, è diventato (in parte) a pagamento, oltre ad essere una specie di film dell'orrore per quanto riguarda il consumo di cpu e di memoria. Ma se ne può fare a meno: si disistalla e si passa a Minikube. Solo che non è lineare. Cominciamo togliendo Docker Desktop con homebrew con cui l'abbiamo messo: brew uninstall docker
. Questo si porta via non solo Docker ma (se non li avevate installati separatamente) anche Hyperkit, Docker daemon (che permette di costruire le immagini), Docker CLI (per comandare il daemon), i cluster di Kubernetes e il binario kubectl.
Invece, dato che vogliamo far fuori la parte desktop ma non tutto docker ovviamente, bisogna installare: brew install hyperkit
, brew install docker
(ma non la versione cask sennò torniamo a Docker Desktop e siamo punto e d'accapo). Ancora non abbiamo docker daemon (dockerd
). Poi si installa kubectl brew install kubectl
e infine Minikube con il docker daemon grazie a brew install minikube
.
Ci siamo, abbiamo ricreato l'ambiente di docker ma senza Docker Desktop. Come funziona? Le opzioni sono quelle di fare il deploy di Kubernetes con una macchina virtuale, con i container o direttamente "bare metal". Usiamo Hyperkit come driver con le tre opzioni: docker, containerd e cri-o. Kubernetes stesso sta sempre più usando Containerd anziché Docker ma per adesso usiamo Docker. Si lavora solo da riga di comando ma si fa meglio. Bisogna prima settare i limiti di cpu e memoria con il comando config set
di Minukube e poi far partire il cluster di Kubernetes con minikube start
e le flag appropriate.
Ci sono vari tutorial in rete, io ho seguito in maniera semplificata questo (opens new window) che contiene molte più informazioni su come configurare l'ambiente creato (opens new window), come installare Docker Compose ed esporre i servizi del cluster fuori da Minikube (opens new window), gestire i Dns e utilizzare i servizi di bilanciamento del carico tra container (minikube addons enable metallb
) e tutto il resto.
Il senso di tutto questo è che si può tranquillamente eliminare Docker Desktop e passare a Hyperkit e Minikube con una configurazione ottimale che permetta di utilizzare ancora i dockerfiles con le API di Docker. Soprattutto, il carico di lavoro sulla macchina diventa molto più leggero e si può fare di più. Tipo investire un po' di tempo e risorse nel bruciare le app Electron cercando delle alternative.
Chi è la macchina
In questo sito (opens new window) ci sono una serie di poster di film disegnati da una istanza di un sistema di intelligenza artificiale sulla base di un breve testo di descrizione della storia e alcuni parametri autoappresi per sviluppare il concetto grafico. È un sistema di machine learning, uno come tanti, ma sembra magia come tutte le tecnologie sufficientemente avanzate (soprattutto quelle che generano cose non previste grazie a comportamenti emergenti). In realtà lo stupore è in quello che ci vediamo noi, non nel disegno della macchina: la meraviglia è un figlia di un esperimento psicometrico al contrario. È il nostro cervello che fa il lavoro di mappatura e creazione del senso, sulla base del modo con il quale si è evoluto: riconosce dei percorsi, genera dei collegamenti, immagina un possibile significato. Sono le neuroscienze, baby. E il soggettivismo.
Una modesta proposta
In che mondo viviamo?
Nel 1958 l'economista americano John Kenneth Galbraith coniò il termine "Affluent Society" per descrivere una nazione al di là delle preoccupazioni materiali, una nazione con un'immensa ricchezza, prima impensabile. In un paese del genere, un luogo in cui è di primaria importanza il consumatore perché sovrano assoluto, l'unico modo per non avere qualcosa è se uno non se lo può permettere, non se la società non può produrlo. È la società del possesso, che per rinnovarsi continua a tentare tutti, stimolando le papille gustative ideologiche. Ovunque, anche negli immaginari.
Ho rivisto il primo film di Captain America della Marvel, Il primo Vendicatore, uscito più o meno dieci anni fa. La storia è facile: Steve Rogers è un ragazzo di Brooklyn tanto gracile quanto determinato a combattere i nazisti e tutti i bulli del pianeta. Le busca da tutti, ma non si arrende; cerca di farsi arruolare, però non lo prendono. Le sue qualità morali lo portano ad essere selezionato per un progetto segreto. Ma la cosa finirebbe lì, se non fosse che il il siero del supersoldato lo trasforma in un eroe. A vincere, alla fine, non è la tempra morale ma il bicipite nerboruto, generato artificialmente nella nazione dall'infinita ricchezza. Con quello colpisce a morte il cattivo, ma è anche grazie a quello che conquista anche la ragazza (l'agente Carter). È l'ideologia del "più grosso è meglio".
Più di sessant'anni dopo la nascita della "Affluent Society", in che mondo viviamo? Sempre nello stesso. L'hamburger più buono è ancora quello più grande, meglio se accompagnato da due chili di patatine.
I link non hanno alcuna affiliazione, puntano orgogliosamente solo all'oggetto culturale citato. Un giorno riuscirò a renderli non tracciati.
“A man must love a thing very much if he practices it without any hope of fame or money, but even practice it without any hope of doing it well. Such a man must love the toils of the work more than any other man can love the rewards of it”
– G.K. Chesterton
END
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