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La mentalità degli hacker


La vecchia scuola di Berkeley, John Gage e un tavolo traballante che dice molto di chi riesce a fermarlo


MacBook Pro 16 M2 Pro

(scritto il 30 settembre 2008)


Nella sala delle armi della Rocca di Bertinoro, in provincia di Forlì, dove anche Dante secoli fa aveva trovato momentaneo asilo, John Gage guarda stupito il tavolo di vetro. A 65 anni, con il fisico da orso buono, barba e capelli bianchi, è uno dei fondatori del colosso Sun Microsystems, tecnologo di prim’ordine e in carica della gestione delle relazioni con il mondo accademico della ricerca. Ma il tavolo l’ha tradito: la sezione su cui aveva poggiato il suo MacBook bianco è basculante lungo l’asse centrale e non vuol saperne di stare ferma. Avere mezz’ora d’intervista con Gage è una rarità, ma i primi 15 minuti lui li passa sotto al tavolo, a capire come funziona il meccanismo riottoso. Fino a che non si sente un clangore metallico seguito da un secco scatto e Gage riemerge sorridente: «A posto, con un classico hack della vecchia scuola di Berkeley», chiosa felice come un ragazzino che ha risolto un problema molesto.

Se l’hack è la manifestazione concreta di un comportamento nel mondo della tecnologia, allora la persona che la mette in essere è un hacker. E John Gage, come molti altri della sua generazione, non ha nessun dubbio né tentennamento nel farsi definire così. D’altra parte, per molti anni è stato un complimento, anche se sconosciuto alla maggior parte delle persone. Per Linus Torvalds, 38 anni, creatore del sistema operativo Linux e tecnologo di prim’ordine (al punto che ha sempre dichiarato di non volersi interessare di altro che degli aspetti tecnologici del suo progetto), "hacker" è quasi un titolo onorifico: “La ragione per cui gli hacker di Linux fanno qualcosa è perché la trovano molto stimolante, e a loro piace condividere questa cosa interessante con gli altri».

Ma chi sono gli hacker, cioè gli smanettoni, in italiano? La storia del termine è ambigua anche per i madrelingua inglesi. Un hacker nel gioco del golf può essere uno “zappatore”, cioè uno che con il bastone anziché la pallina colpisce l’erba. L’hack, come sostantivo, è un taglio brusco, un’intagliatura, magari nel legno, una scorciatoia. E, traslato, indica la scorciatoia un po’ ruvida per risolvere in modo originale un problema difficile.

Per Steven Levy, leggendario giornalista tecnologico di Newsweek oggi passato a Wired (che a questa parola nel 1984 ha dedicato "Hackers: Heroes of the Computer Revolution" uno dei primissimi libri-inchiesta mai scritti sull'argomento), l’hacker è il moderno eroe della tecnologia informatica. Anche se, in realtà, lo smanettone è una figura antica, che si è cristallizzata negli anni Sessanta, come raccontano Steve Lohr nel suo libro “Go To” sulla storia dell’informatica e soprattutto Katie Hafner in “When Wizard stay up late at night” sulla nascita di Internet. Gli anni in cui, nelle università della costa occidentale americana, si sono fuse tre culture: quella accademica della comunità dei ricercatori, quella tutta americana (ma in realtà già strutturata in Europa) dell’inventore che fa tutto da solo e infine quella sbocciata alla fine degli anni Cinquanta della controcultura, che vede nell’informalità e nella condivisione del sapere i suoi assi portanti.

«L’hacker – spiega Mattia Monga, ricercatore informatico della Statale di Milano che coordina il gruppo di “esperti di sicurezza informatica” dell’ateneo meneghino che partecipano ai contest mondiali come il recente Defcon di Las Vegas – è una persona che ha passione per il computer, che cerca di trovare soluzioni inedite a problemi magari già risolti, che vuole dimostrare ai suoi pari di essere una persona di valore nel suo campo di elezione».

L’hacker oggi ha una connotazione strettamente informatica, ma è in realtà una visione riduttiva, aggiunge Bruno, 19 anni, toscano “smanettone da quando ne avevo 11”. Perché in realtà «era un hacker anche Leonardo da Vinci, oltre che un genio. Cercava sempre di trovare soluzioni nuove, e si sporcava le mani per farlo. Certo, gli hacker non si occupano di scienza ma di tecnologia, una distinzione che spesso ci si dimentica. Ma sono sostanzialmente dei curiosi, che vogliono risolvere dei problemi e non si fermano fino a che non ci riescono».

La capacità di fare innovazione degli hacker, seppure in modo irregolare e imprevedibile, è testimoniata dal Pantheon dei loro eroi: da Linus Torvalds, lo studente finlandese che ha creato un sistema operativo collaborativo gratuito il cui costo di realizzazione è stato stimato in 6 miliardi di euro di anni-uomo di lavoro, al primo Bill Gates che smanettava come Steve Wozniak, "l’altro" fondatore di Apple che si è praticamente inventato il personal computer nella forma che conosciamo. Fino a Bill Joy, tra i padri di Sun Microsystems, che da solo riscrisse e convertì il codice sorgente proprietario di Unix nella versione “free” di Bsd (la Berkeley Software Distribution).

«Gli hacker – aggiunge Francesca Pasquali, ricercatrice dell’università di Bergamo che da dieci anni indaga il ruolo degli individui nel mondo delle nuove tecnologie – sono percepiti come maghetti del computer un po’ sfigati e alle volte anche inquietanti. In realtà, sono la linfa dell’innovazione tecnologica in ambito informatico».

John Gage, che a Bertinoro ne ha data una testimonianza concreta, alla curiosità del cronista ha aggiunto solo una frase, sorridendo: «L’hacker è una mentalità. Ed è molto divertente».