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Internet? È infestata dai fantasmi


I manager pagano pur di scomparire dal web e poter sfruttare il vantaggio competitivo di non esistere. Conviene uscire dalla rete per essere anziché simulare

Sedia vuota

(pubblicato il 12 dicembre 2008)

Domenica sera a San Francisco. Al 495 di Gear Street c’è il Cliff Hotel. Arriva, puntualmente in ritardo di dieci minuti, una Porsche Boxster verde smeraldo. La guida Sara, 32 anni (il suo nome, come quello degli altri protagonisti di questo articolo, è stato cambiato per i motivi che tra poco capirete). Dopo la laurea in Economia, una carriera fulminante fuori dall’Italia. Prima nel mondo delle organizzazioni internazionali, poi in quello delle grandi banche d’affari e, infine, in uno dei colossi della Silicon Valley californiana.

La particolarità è che Sara è scomparsa. Non è solo emigrata dall’Italia. Ha anche tagliato il cordone ombelicale digitale che oggi lega sempre più persone della sua generazione: internet. «Con tutti i miei amici», spiega, «abbiamo una cosa in comune. Non vogliamo essere trovati su internet: per sicurezza, per prudenza ma anche perché sono sicura che le mie informazioni siano in realtà solo una cosa mia».

Non è semplice scomparire dal web. Oggi, anzi, c’è la corsa a mostrarsi nelle reti digitali. E l’indice di modernità e ricchezza dei Paesi viene sempre più misurato con la penetrazione della banda larga nelle case delle famiglie o dal numero di persone che aprono un diario online (un blog) o che si iscrivono a Facebook. Ma c’è anche chi, in queste reti, non vuole comparire.

«Non è un caso che manchino i vertici, perché chi sta in cima non vuole comparire. La ricetta per il successo di oggi è essere invisibili. Se appari, vuol dire che sei solo uno che simula».

Linkedin è il network «professionale» fondato nel 2002 a Omaha, in Nebraska, che collega in tutto il mondo circa 30 milioni di persone. Chi si iscrive si propone per una attività lavorativa, e scrive che formazione ha, quali sono le sue esperienze lavorative, quali le sue aspirazioni. Lo scopo è mettersi in contatto con altre persone, creare una rete di collegamenti, fino a che non si generano occasioni di lavoro. Da quello di segretaria part time fino al manager. Ma c’è un punto: nell’oceano di contatti presenti manca quasi completamente il vertice. A fronte di milioni di potenziali impiegati e quadri, la percentuale di dirigenti è molto bassa, ha rilevato uno studio sponsorizzato dalla società di finanziamento per le imprese digitali Usa Sequoia Capital.

«Non è un caso», commenta Sara, «perché chi sta al vertice non vuole comparire. La ricetta per il successo di oggi è essere invisibili. Se appari, vuol dire che sei solo uno che simula».

Nel 2004 un ex banchiere d’investimento e laureato alla prestigiosa Insead di Parigi, Erik Watchmeister, fondò il suo social network, «A Small World». La chiave era la massima esclusività: mentre i siti web che cercano di raccogliere milioni di iscritti fanno ponti d’oro a chi vuol entrare, Asw (come lo chiamano i suoi membri) rende difficile anche solo conoscere la sua stessa esistenza. Oggi ha 300 mila iscritti, tutti reclutati da altri iscritti e tutti vigilati attentamente: chi prova a violare la privacy degli altri viene escluso senza più possibilità di rientrare.

«Per questo non solo ne sono uscito, ma ho chiesto a Erik di cancellare tutti i miei dati: la memoria digitale della mia presenza, fino alla più piccola traccia»

Asw è cambiato profondamente negli ultimi due anni: da comunità super esclusiva è diventato un fenomeno diverso. Lo spiega Guido, altro nome di fantasia dietro al quale c’è un uomo di 31 anni, cittadinanza svizzera, impegnato in quello che definisce «il business più discreto del mondo», cioè il private banking.

«Sono stato invitato dal fondatore», spiega mentre prende un caffè nel centro di Milano, «quando ha lanciato il sito. Per tre anni ho avuto privilegi amplissimi, compreso un network di conoscenze virtuali altolocate in tutto il mondo. Potevo trovare ospitalità in appartamento a Singapore o a Tokyo con una semplice email, oppure partire per il Sudamerica con la certezza di avere amici a Rio de Janeiro o a Caracas. Adesso dentro ci sono Paris Hilton, Emanuele Filiberto di Savoia e tutta la massa di socialites in cerca di celebrità. Per questo non solo ne sono uscito, ma ho chiesto a Erik di cancellare tutti i miei dati: la memoria digitale della mia presenza, fino alla più piccola traccia».

Scomparire è stata anche la scelta di Maria. Imprenditrice piemontese e figlia di imprenditore, anche il suo nome non è divulgabile. Ha iniziato suo nonno, nella provincia di Ivrea, a fabbricare, e ha continuato suo padre. Adesso è il suo turno, e tra sorelle e cugine è quella che ha più piglio. Per questo il patriarca l’ha messa alla guida legale dell’azienda, a 37 anni. Lo racconta accendendo una sigaretta dietro l’altra dentro la sua Bmw X5 nera, parcheggiata nella piazzola di un autogrill lungo la Milano -Torino. «Ho avuto sempre paura. Quando mi intervista un giornalista e poi chiede una fotografia da pubblicare, ho sempre rifiutato. All’inizio perché, come diceva mio nonno, ci sono un sacco di sbandati ed è bene rendergli il più difficile possibile rapirci. Adesso il motivo è diverso, ma non è facile spiegarlo».

Il 30 giugno 2008 è stato calcolato che ormai siano su internet 1,46 miliardi di persone, a fronte di una popolazione mondiale di circa 6,7 miliardi. Ma nessuno calcola quante sono le persone le cui informazioni sono in un modo o in un altro disponibili sul web. Magari senza che lo sappiano. Un nome rintracciabile con un motore di ricerca. Una fotografia con indicato il cognome. Un indirizzo con associato il nome il numero di telefono.

«Dettagli insignificanti», dice Massimo, ragazzo di 25 anni che vive in Italia e che preferisce non rivelare neanche la sua città e il suo lavoro

Una prima polemica si era accesa quando, il 25 maggio 2007, Google, il più famoso motore di ricerca internet al mondo, lanciò il servizio «Street View» negli Stati Uniti – una tecnologia che permette di vedere le fotografie panoramiche riprese da addetti dell’azienda delle strade di tutte le principali città Usa (oggi il servizio è disponibile anche per Milano, Roma, Firenze, Cuneo e l’area del Lago di Como, forse a causa della presenza dell’attore George Clooney). Comparivano, infatti, le targhe delle auto parcheggiate, i volti dei passanti, le coppie di amanti mano nella mano mentre a casa mogli e mariti legittimi li pensavano in un viaggio di lavoro o in ufficio.

«Dettagli insignificanti», dice Massimo, ragazzo di 25 anni che vive in Italia e che preferisce non rivelare neanche la sua città e il suo lavoro. Parla attraverso Skype e potrebbe essere ovunque: nel palazzo accanto o in Australia. Ma ha idee molto chiare: «Se cerchi il mio nome e cognome su Google, non compare niente. Non una foto, non un collegamento. Il mio lavoro non me lo permette e io non voglio. Quello di cui ho bisogno è il vantaggio competitivo di non esistere».

La spiegazione di Massimo non è diversa da quella di Sara. Le informazioni – dicono – sono un vantaggio competitivo. Viviamo un’epoca in cui il semplice sapere dell’esistenza di qualcosa vuol dire avere un vantaggio sui propri avversari nel mondo degli affari o in altri settori. Come un chimico che ammetta di fare ricerca per un farmaco con un determinato tipo di sostanze: basta questo indizio per far capire a chi vive nel suo stesso settore in quale direzione sta andando. Il silenzio, la mancanza di informazioni, cioè il segreto, è la chiave per vincere.

Per togliere i dati che già esistono dalla rete il problema è complesso: il dato rimane a disposizione, volendolo cercare: sono gli "errori di gioventù"

Per non immettere dati in rete è importante la disciplina. Ma per togliere quelli che già esistono, il problema è più complesso. Massimo li definisce «gli errori di gioventù». Errori molto comuni soprattutto a cavallo del nuovo millennio, tra la fine degli anni Novanta e il Duemila. Molti, per la novità, si lasciarono trascinare, magari negli anni degli studi, nell’esplorazione dei forum, dei siti in cui è possibile interagire. Caricando qualche fotografia, iscrivendosi a newsletter e a servizi di rete, compresi quelli della posta elettronica. Insomma, lasciando tracce che la memoria implacabile dei motori di ricerca come Yahoo e Google permettono, a un decennio di distanza, di riesumare. Infatti, anche se le pagine web in cui i dati sono conservati vengono fisicamente cancellate dai computer che li contengono, i motori di ricerca conservano non solo la memoria ma anche una cache, una «copia di sicurezza» testuale. In sostanza, il dato rimane a disposizione, volendolo cercare.

E non ci sono solo Google e Yahoo. Bisogna andare al Presidio di San Francisco. Là, accanto al parco del Golden Gate, gli spagnoli, nel Settecento, avevano costruito un forte che guardava dal promontorio l’accesso alla Baia. Passato poi al Messico, a metà dell’Ottocento era diventato la sede di un presidio militare statunitense. Lasciato dall’esercito nel 1995, ospita una delle zone residenziali più esclusive della città, con le strade immerse nel verde e le case finto vittoriane di legno e mattoni rossi. Ospita anche le sedi di alcune aziende di élite di San Francisco, tra le quali la Industrial Light and Magic di George Lucas, il creatore di Guerre Stellari e Indiana Jones, che da sempre si rifiuta di lavorare a Hollywood, trecento chilometri più a sud.

In una piccola palazzina nel cuore dell’area, però, ha sede Internet Archive, un’associazione no profit il cui scopo è conservare copie di internet. Cioè, di copiare e archiviare il web, con l’ambizione di diventare per la nostra epoca quello che nell’antichità è stata la biblioteca di Alessandria, in Egitto. La mole di dati archiviati è impressionante, lo scopo assolutamente pacifico e in qualche modo lodevole. I contributi per espandere l’archivio e pagare stipendi e bollette vengono forniti da ricchi benefattori della Silicon Valley (gli stessi personaggi che devono la loro fortuna alle nuove tecnologie)e da persone comuni di tutto il mondo. Per alcuni, però, Internet Archive è solo un pericolo.

I professionisti a cui Massimo fa riferimento non si possono rintracciare: non rilasciano interviste neanche con la promessa dell’anonimato

«Perché», spiega brevemente Massimo prima di chiudere in modo brusco la nostra conversazione, «a differenza di Google non puoi chiedere che vengano cancellati i tuoi dati. Per questo è necessario ricorrere a veri professionisti di questo genere di operazioni».

I professionisti a cui Massimo fa riferimento non si possono rintracciare. Visto che il loro lavoro è «sterilizzare» le informazioni disperse in rete, non rilasciano interviste neanche con la promessa dell’anonimato. Né si fanno ingannare: è troppa l’abilità nel controllare le referenze dei loro possibili committenti per cadere nel tranello giornalistico del falso cliente.

A fine novembre è passato un anno esatto dal primo incontro con Sara, a San Francisco. I contatti sono cambiati e, nonostante l’azienda in cui lavora sia quotata in Borsa, non si trova più traccia del suo nome. Anche un controllo su Google, ripetuto a dodici mesi di distanza, porta una sorpresa: le pagine web in cui compariva la sua foto non ci sono più. Neanche quelle dell’università. Sara deve aver avuto un’altra promozione, o forse ha cambiato azienda, e ha deciso di scomparire del tutto dalla rete.

(pubblicato il 12 dicembre 2008)